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Gradiente pastello

La crisi silenziosa della shopping experience nel retail.

  • Alma Studio
  • 4 giorni fa
  • Tempo di lettura: 3 min

Sempre più marchi che operano nel retail hanno automatizzato a tal punto il processo di acquisto che l'interazione umana tra cliente-commesso è quasi inesistente. L’esperienza d’acquisto è diventata un lusso?



Crisi del retail
Marketing Tips: Shopping experience - la crisi silenziosa del customer care nel retail

C’è stato un tempo in cui entrare in un negozio voleva dire essere accolti, ascoltati, consigliati. Un tempo in cui l’esperienza d’acquisto non si misurava solo nel prodotto, ma nel percorso: dal buongiorno alla cassa, passando per un suggerimento inaspettato, uno scambio di battute, un sorriso. Un tempo in cui le aziende investivano molte risorse del loro budget per formare gli addetti alla vendita per offrire la migliore esperienza d'acquisto possibile al cliente. Un tempo in cui si parlava di cerimonia della vendita non solo nei negozi delle grandi città ma anche nella piccola boutique di paese.


Oggi invece stiamo assistendo a una trasformazione dell'esperienza d'acquisto in negozio e, sempre più spesso, entrare in un punto vendita significa non interagire con nessuno.


Self checkout, antifurti da rimuovere da soli, grucce da sistemare, merce da riporre nel proprio sacchetto (sacchetti rigorosamente a pagamento- e tanti cari saluti al concetto di pubblicità dinamica che una volta si celava dietro le shopping bags).

Addetti vendita invisibili o peggio, visibilmente sfiduciati.

E soprattutto: nessuna consulenza reale, nessun dialogo, nessun valore aggiunto umano.


Shopping experience: evoluzione o regressione?


La tecnologia doveva facilitare. Ma oggi, nella maggior parte dei casi, ci sta semplicemente lasciando soli. Un’esperienza che diventa sempre più individuale, automatizzata, silenziosa.


Più veloce? Forse.

Più comoda? Dipende. Sicuramente non per il cliente.

Ma decisamente meno memorabile, meno relazionale, meno curata.


Nel frattempo, però, il prezzo dei prodotti continuano a salire. E con esso, paradossalmente, scende il livello del servizio.


E se la consulenza diventasse un lusso?


Nel mondo del retail di lusso, la shopping experience è ancora un valore fondamentale: ambiente e luci perfette, musica studiata per favorire la propensione all'acquisto, profumi avvolgenti che creeranno una memoria olfattiva unica, camerini ampi e accoglienti, champagne e un'esperienza d'acquisto altamente personalizzata e personale.

Qui, la figura di addetto alla vendita è altamente specializzata, preparata e disponibile costituendo davvero un valore aggiunto all'esperienza in store.

Il sales advisor conosce il suo cliente e quando non è così, si adopera per conoscerlo a fondo così da intercettare i suoi desideri e bisogni offrendo una consulenza

tout-court.

Qui non ci sono banali commessi ma punti di riferimento, ambasciatori del brand.

E in quanto tali, devono mantenere alta l'aspettativa dell'experience promessa dal marchio blasonato di turno attraverso un servizio eccellente.


Viene allora da chiedersi:

La consulenza in store sta diventando un privilegio riservato a pochi?

Essere seguiti da un essere umano preparato, empatico, presente, è il nuovo lusso?


Il divario tra esperienze “normali” e “di lusso” si sta allargando. Non solo in termini di prezzo, ma di esperienza, attenzione, relazione.

Cosa ci dice questo su di noi, sui valori che plasmano la società del consumo?

E ancora: quali nuove figure professionali del retail stanno emergendo?


Lavoratori del settore il cui approccio è privo di motivazione e prospettive portando inevitabilmente all'appiattimento dell'esperienza d'acquisto.


Abbiamo smesso di formare venditori, consulenti, storyteller e stiamo creando invece operatori passivi, spesso senza formazione, senza coinvolgimento e frustrati da condizioni salariali precarie?


Ci troviamo dunque a un punto di svolta in cui è necessario ripensare il ruolo dell’esperienza nella vendita fisica per preservare la presenza dei negozi ed evitare la morte del retail.


La domanda di partenza è: se i negozi diventano solo dei magazzini self-service con prezzi alti, che motivo ha il cliente per entrare?


Una riflessione che riguarda non solo il retail, ma anche il brand positioning, la comunicazione, la formazione e la cultura aziendale.


Abbiamo già assistito a molte trasformazioni nel mondo del retail: dalle aperture di massa alle chiusure improvvise, dall’entusiasmo total-China oriented al ravvedimento post-Covid che ha spinto i brand a coltivare nuovi mercati. È un settore dinamico, e come tale è normale che sperimenti, cambi direzione, faccia anche dei passi indietro.

Ma ciò che troppo spesso si sottovaluta è il costo di questi passi indietro in termini di posti di lavoro, di ottimizzazioni spinte al limite, e di una nuova generazione di addetti vendita lasciata senza formazione, senza identità professionale.


Per questo è fondamentale che aziende e grandi gruppi agiscano con maggiore consapevolezza: il rischio di un autogol è altissimo.


Favorire un modello di consumo impersonale, accelerato, basato su acquisti compulsivi e resi seriali — resi possibili da politiche ormai fuori controllo — non è solo un problema economico, ma anche ambientale e sociale.


E tu? Quando è stata l’ultima volta che ti sei sentito/a davvero accolto in un negozio?

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Misafir
3 giorni fa
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Verissimo!

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